Per essere breve:
nella sperduta provincia
di Ferrara, nella val padana che lambisce il mare sulle coste tra le Valli di
Comacchio con i suoi sette lidi, Roby nasce a Lagosanto il 31 dicembre 1966, in
un inverno freddissimo, con tanta neve.
Da queste parti la neve,
non voglio dire che sia rara, ma in quarant’anni è venuta solo un paio di volte
così abbondante e copiosa; sarà la vicinanza del mare, o la latitudine o che so
io. Fatto sta che la neve non la si vede se non in forma di una leggera spruzzata,
e neppure ogni anno. La peculiarità della zona, qua nel basso ferrarese, è
l’umidità; ma soprattutto, d’inverno, la nebbia.
Il bisnonno, Alessandro,
già novantenne, lo chiamava “l’omino della luna”, come a denotare una sua
particolarità, che non era di questo mondo. Il nonno disperso in Russia durante
la seconda guerra mondiale e le vicissitudini di quegli anni, che tracciavano
la prima repubblica con solchi indelebili di sangue, non potevano segnare
l’infanzia del bimbo che, ancora, non sapeva nulla del mondo; le sue giornate
estive passavano a rincorrere tra campi di mais e di grano a perdita d’occhio,
e giochi a rimpiattino (“muffa” per noi Laghesi) tra amici ed amichette, in
cantieri edili piccoli, che ancora non denotavano alcuna espansione urbana.
L’autunno e l’inverno invece passavano nella scuola con poco interesse, tanto
era l’impegno delle maestre nell’insegnamento; dal canto suo, Roby, non
mostrava un vero interesse per le cose della cultura, che pure c’era e c’è, ma
che senza un reale entusiasmo da parte di chi doveva insegnare a stento
uscivano. Come dire: una noia mortale. In quegli anni di scuola avrei voluto
fare il disegnatore, preso com’ero, assieme a tanti altri bambini, dall’avvento
dei cartoni animati giapponesi, primo fra tutti Goldrake, che spinse me e tanti
miei compagni a disegnarne le gesta ed a inventare nuovi robot-guerrieri per
combattere il male che proveniva dallo spazio. Inventai un robot e lo chiamai
Cyclops, per via del casco con visiera a “V”che faceva sembrare un solo grande
occhio al centro della faccia, dal quale sprigionava il solito devastante
raggio che non lasciava scampo ai malvagi. Il mio cuginetto, che invece, come
lui stesso dichiarava, non aveva uno straccio di immaginazione, rimaneva sempre
in disparte al momento di chinarsi sul quaderno e disegnare, allora cercai il
modo e una maniera per coinvolgerlo; dopo vari e comunque numerosi tentativi
riuscii a convincerlo, e finalmente, facendomi promettere che non avrei riso di
lui, mi presentò la sua creatura robotica: “Cleciups”. Quando pronunciò il nome
ad alta voce, entrambi prorompemmo in una fragorosa risata. Fu così che la sua
carriera da disegnatore durò lievemente meno della mia.
Ricordo nitidamente una
primavera, quella del 1978. Quando fu rapito Aldo Moro. Stavo andando a scuola
e, una volta giunto, mi rispedirono a casa, perché, dissero, avevano rapito lo
statista, e quindi era un periodo di disgrazia. Abitavo a poche centinaia di
metri dalla scuola elementare, e quindi, sempre a piedi come vi ero arrivato,
ne feci ritorno, mormorando fra me e me che era una cosa inconcepibile: rapire
un uomo a fini “politici”; un termine che ancora non comprendevo. Curioso che i
ricordi si fermino a quella riflessione, mentre facevo ritorno da scuola, sotto
un bellissimo sole primaverile; forse un po’ troppo caldo per il periodo; col
grembiule nero ed il fiocco azzurro al collo.
Per la musica rock e le
droghe leggere, ancora non era maturo il tempo, e le giornate passavano al rito
di scorribande nei campi e le prime sbirciate sotto le gonne delle ragazzine.
Senza che questo precludesse la mia verginità, protrattasi all’età post
adolescenziale con mia gran sofferenza, dovuta ad una timidezza indomita,
impossibile da dissimulare.
L’insuccesso della scuola
superiore, dalla quale mi ritirai dopo pochi mesi, non contribuì ad accrescere
la stima in me stesso; lo stress addirittura mi procurò un eczema sulle braccia
che mi durò due anni ancora dopo quell’esperienza; collezionai poi un’altra
delusione, quando seguii un corso di disegno pubblicitario presso una scuola
privata, che mi dotò, quello si, di una mano più sicura nel tratto, ma che non
mi conferì alcun titolo accademico col quale far leva nel mondo del lavoro.
Certo erano bei tempi
quelli in cui l’unico problema era quello di trovare un passatempo divertente
col quale passare le giornate. Un padre poco propenso a tramandare il lavoro ai
figli rendeva la cosa ancora più semplice, ma costruiva un futuro incerto alla
progenie che, in seguito, si dovette arrangiare.
Mio fratello fu il primo:
dopo qualche anno dovette fuggire dall’intolleranza di un padre che non sapeva
(o non voleva) insegnare con pazienza il lavoro; e poi toccò a me. Di qualche
anno più giovane, ma con uno spirito ancora più indomito, non potei tollerare
che per qualche mese il modo brusco di porsi di un uomo che a stento riconoscevo
da quello che mi era sempre apparso tra le mura domestiche, e, quando anche a
causa di una malattia ossea che mi costrinse ad una gravosa
operazione, mi dissociai definitivamente dal suo lavoro, nonostante tutto, fu
un sollievo.
Dall’età di 14 anni fino
a poco più dei 19 frequentai la scuola di karate stile shotokan che si teneva
nella vicina Comacchio, a 16 anni cominciai a diventare vegetariano, eliminando
per prima cosa le carni di animali terrestri e volatili, per arrivare, ma molto
più in là, nel ’94, ad eliminare anche quella degli animali acquatici. Durante
la mia frequentazione alla scuola di karate, riuscii a raggiungere la cintura
blu, ma già dal gennaio ’86 la malattia cominciava a farsi sentire, e ben
presto dovetti rinunciare alla via delle arti marziali per intraprendere, ad
operazione riuscita, quella della musica, che meglio si addiceva alla mia
mansuetudine. L’operazione chirurgica fu eseguita presso l’ospedale Policlinico
di Modena, nel reparto di Chirurgia della Mano, dall’equipe del dottor
Cristiani, al quale va ancora oggi la mia gratitudine per avermi salvato
l’arto, che versava in condizioni, ma me lo dissero solo poi, molto gravi.
Non trascorsero che sei
mesi dall’intervento, ancora ero convalescente dal trapianto osseo e dovevo
scrupolosamente seguire una terapia idonea al consolidamento dei tessuti, che
venni chiamato alle armi.
Avevo da 3 mesi compiuto
vent’anni.
Qui urge una spiegazione:
come mai così in ritardo per la leva, quando solitamente a quei tempi si veniva
chiamati a 18? Nessun mistero.
Successe, 2 anni e mezzo
prima, che nella mia superficialità protratta dall’adolescenza, feci la domanda
per entrare nell’arma dei carabinieri. Due mesi dopo l’operazione, soprattutto
a scopo terapeutico avevo iniziato lo studio della batteria, proprio quell’anno
(siamo nel 1987). E solo da qualche mese mi dilettavo a percuoter bidoni; nel
mentre che una mattina facevo confusione, mi entrarono in camera i carabinieri:
“Per dinci! Faccio così chiasso?!?”, invece no, dopo oltre due anni avevano
valutato la mia domanda di ammissione e l’avevano accettata, aspettavano solo
la mia conferma. Io confermai che no, non volevo fare il carabiniere, e dopo
circa un mese, il 27 aprile, dovetti partire alla volta di Albenga per
affrontare la dura vita militare. Il C.A.R. fu una merda! Dopo tre giorni che
ero in caserma mi spedirono a Savona, all’ospedale militare, e vista l’enorme
cicatrice del trapianto, ancora rossa, la mobilità limitata dell’arto, invece
di rispedirmi a casa per ricevere le cure del caso, mi declassarono solamente,
in maniera che non potessi fare cose troppo pesanti, ma che, comunque, dovessi
fare la Naja. Passarono i mesi tra imboscamenti al centralino della caserma di
Aviano, alla quale ero stato assegnato dopo il C.A.R., in provincia di
Pordenone, tra uscite al paese e fumate in camerata. Al decimo mese, durante
una licenza, marcai visita e mi recai all’ospedale di Bologna: cose da matti!
Dopo aver visionato la cartella clinica dell’intervento, ed avermi sottoposto
ad un’attenta visita ortopedica, decisero che dovevo essere esonerato dal
servizio militare! Dopo dieci mesi!!! Oltre al danno la beffa: nonostante abbia
fatto dieci mesi di militare, è come se non lo avessi fatto per inidoneità. Mi
recai alla caserma di Aviano un’ultima volta, quell’anno e per sempre, per
portare a casa alcuni effetti personali che erano rimasti là, così ne
approfittai per salutare alcuni miei
amici commilitoni, coi quali fumavamo pacchetti di MS a partire già dalle 7 del
mattino, per finire alla sera con le canne che ci conciliavano un sonno
tranquillo, a dispetto dello squallore del luogo dove ci trovavamo. Ricordo con
enorme soddisfazione, le bevute fatte nella storica enoteca di Pordenone,
bellissimo locale su tre piani: vino e grappe di un’eccellenza unica.
Venne il tempo del primo
lavoro e del primo amore serio: il 1988.
Il primo lavoro
consisteva nel gestire la cucina di una piccola enoteca, situata in una viuzza
della vicina Codigoro; ero assunto come aiuto cuoco, col contratto di
“formazione lavoro”, ma di fatto ero il cuoco, senza aiuti, ma con
l’insegnamento del proprietario che conosceva l’arte culinaria, e che ebbe
molta pazienza ad insegnarmela. Il primo amore serio, nel senso che si smise di
ridere quando dovetti presentarmi ai genitori di lei, lo ebbi con una ragazza
mia coetanea, di Comacchio, conosciuta sulle spiagge dei lidi ferraresi. Il
lavoro, benché mi piacesse molto, anche se dovevo preparare pietanze a base di
carne, durò pochi mesi, a natale di quello stesso anno ebbi un diverbio col
titolare e venni licenziato. Il primo amore serio durò un po’ di più, circa 3
anni e mezzo; a gennaio del 1991 ci lasciammo per incompatibilità nel’intendere
le priorità della vita. Il lavoro: l’anno seguente, l’89, lo passai, d’estate,
a raccogliere angurie nelle campagne; le meravigliose e buonissime angurie che
solo dalle mie parti sono così speciali. Poi, dall’autunno, iniziai un’avventura
lavorativa che, benché fosse solo un lavoro stagionale, si protrasse per oltre
10 anni, inframmezzata con due piccole esperienze in fabbrica, nel settore
chimico; durata una anno e mezzo la prima, che mi costò la perdita totale
dell’olfatto ad opera dei solventi devastanti che usavamo senza nessuna
protezione, che mi bruciarono le mucose nasali; mi ci vollero quasi dieci anni
per recuperare in parte l’olfatto, e tuttora non ho una percezione normale
degli odori, anche se ritengo di averlo recuperato del tutto; durata sei mesi la seconda esperienza lavorativa,
presi servizio in una fabbrica dove si lavorava la gomma, a Fusignano, nel Ravennate;
si chiamava “Evergomma”, ora non esiste più, dove ero carrellista di reparto;
dovetti cessare la mia collaborazione per un rapporto squilibrato tra stipendio
e spese sostenute per andare fin là e
soggiornarvi. L’avventura lavorativa decennale è stata quella dell’essiccatoio.
Si essiccavano i raccolti di riso provenienti da tutto il basso ferrarese, ma
arrivavano camionate provenienti anche dal vercellese e da altre parti d’Italia
piuttosto lontane, era infatti un impianto di essicazione tra i più rinomati
del nord Italia, gestito da una cooperativa locale, ora fallita per
inettitudine dei nuovi dirigenti. Dieci anni di lavoro duro, pericoloso, ma
assolutamente originale e responsabilizzante, al fianco di persone affidabili e
professionali che mi trasmisero queste qualità; l’unico vero lavoro, ripeto,
durissimo, ma bello, che abbia mai fatto. Ci arrampicavamo su tralicci senza
nessuna cautela o protezione, ci inerpicavamo all’interno degli essiccatoi, che
sono enormi silos con delle camere interne dove passa aria calda, con l’unica
arma per non farsi male la nostra esperienza e accortezza. Non erano rari gli
incidenti, ma mai gravi ve ne furono durante il mio servizio; l’unico che
ricordo fu la perdita di tre falangi delle dita della mano, dovuto al
malfunzionamento di una centralina che mise in moto un rotore nel momento meno
indicato: mentre qualcuno lo stava pulendo.
Indescrivibili sono le
operazioni che facevamo per svuotare le celle
- o silos - del riso a base quadrata 10x10 metri, 13 metri di altezza.
Vi rimaneva, sul fondo piatto, una quantità di riso che poteva variare tra i
700 e gli 800 quintali: una montagna alta anche 6 metri, interamente da
svuotare a mano, con l’ausilio, ma fino ad un certo punto, di un verricello con
attaccato al cavetto una specie di pala artigianale di metallo, con la quale ci
arrampicavamo sopra al mucchio, la piantavamo, e, salendoci sopra, ci facevamo
trainare giù in una specie di surf su riso, avendo l’accortezza di saltare giù
un attimo prima di cozzare contro la parete del silos. Posso assicurare che la
descrizione non potrà mai rendere la situazione: ci fu qualcuno che scappò via
in lacrime per la disperazione. Ma io la prendevo con filosofia: una volta
iniziato mi ci divertivo pure, nonostante le tonnellate di polvere respirata.
Nel 1994 conobbi il mio
secondo amore importante, che divenne mia moglie dopo circa 4 anni, ma non
avemmo la benedizione di un figlio, a tutt’oggi. Nel ’98 entrai per sei mesi in
una fabbrica metal meccanica (fu durante la mia permanenza lì che mi sposai, in
luglio), e fu l’assaggio di un periodo nel settore, che iniziò con l’entrata in
un’altra fabbrica, alla fine dell’anno seguente, e che era il reparto di
sbavatura dei getti in ghisa di una fonderia modenese, distaccata a Codigoro.
Dal settembre ’98 a quasi tutto luglio ’99 lavorai per l’ultima volta, quasi
ininterrottamente, all’essiccatoio, che aveva anche un capannone dedicato alla
pulitura e raffinazione del riso, dove facevamo anche confezionamento per un
noto marchio oltre che per la nostra ditta. Poi, la crisi dirigenziale cominciò
a farsi sentire, dopo la morte per incidente stradale del presidente della
cooperativa. I successori non erano all’altezza del loro compito, e ben presto
si cominciò a risentirne. Quando ebbi la possibilità di avere un lavoro fisso
presso le fonderie distaccate a Codigoro, presi la palla al balzo e vi entrai;
ma fu una sciagura morale. Mai lavoro che feci fu così deprimente, le mie
difese immunitarie in tre anni si abbassarono tanto che frequentemente ero
preda di influenza ed altri malanni che interessano le vie respiratorie; era
pesante anche come fatica ed il mal di schiena non tardò a punirmi per
movimenti inconsulti, dovuti a un modo di lavorare che non prevedeva aiuti
meccanici per sollevare pesi dall’interno di cassoni troppo alti per potercisi
chinare con prudenza. Per non crepare del tutto dovetti ancora una volta
cambiare. Fu così che approdai all’ipermercato dove sono sfruttato tutt’ora,
dove passo le mie giornate in un ambiente che ti vuole rispettoso di tutto e
tutti ma privato del rispetto verso te stesso; con uno stipendio ridicolo che
ti permette a stento di pagar le bollette e che per farsi una vacanza piccola
piccola necessita di enormi sacrifici, e magari anche qualche aiuto.
Una menzione speciale va
al mio viaggio in India.
Dopo essermi licenziato nel 1991, dalla fabbrichetta che mi costò le mucose nasali, avendo conosciuto un gruppo che si preparava a partire per l’India, mi aggregai. Me lo potei permettere perché vivevo ancora con i miei, anche se erano già in procinto di separazione. Soggiornai in India per quattro mesi, quasi tutto il periodo ospite in un monastero assieme ad altri connazionali amici. Ebbi modo di condividere con quel popolo il loro modo di vivere, il cibo, il lavoro e la povertà che spesso lambiva anche noi occidentali nella scarsità di mezzi, ai quali siamo abituati nella nostra opulenta società. È così. Alla fine, anche se a noi può sembrare di andare indietro - ed in effetti ci si sta andando - le condizioni di molti popoli sono, per chi non li ha constatati, inimmaginabili. Ma i motivi di questa disuguaglianza sono invece uguali per tutti; si riassumono nella fame di potere e di ricchezza di una piccola parte di persone, che ha perso di vista la causa comune e si illude di inseguire un futuro luminoso che possa essere solo suo, nel totale disinteresse della sofferenza altrui.
Dopo essermi licenziato nel 1991, dalla fabbrichetta che mi costò le mucose nasali, avendo conosciuto un gruppo che si preparava a partire per l’India, mi aggregai. Me lo potei permettere perché vivevo ancora con i miei, anche se erano già in procinto di separazione. Soggiornai in India per quattro mesi, quasi tutto il periodo ospite in un monastero assieme ad altri connazionali amici. Ebbi modo di condividere con quel popolo il loro modo di vivere, il cibo, il lavoro e la povertà che spesso lambiva anche noi occidentali nella scarsità di mezzi, ai quali siamo abituati nella nostra opulenta società. È così. Alla fine, anche se a noi può sembrare di andare indietro - ed in effetti ci si sta andando - le condizioni di molti popoli sono, per chi non li ha constatati, inimmaginabili. Ma i motivi di questa disuguaglianza sono invece uguali per tutti; si riassumono nella fame di potere e di ricchezza di una piccola parte di persone, che ha perso di vista la causa comune e si illude di inseguire un futuro luminoso che possa essere solo suo, nel totale disinteresse della sofferenza altrui.
A mia Mamma Loretta.
Nel giugno 2009, il 21,
mia madre è venuta a mancare, ed è a lei che voglio dedicare questa lunga
lettera autobiografica. Lei che sempre mi ha appoggiato ed aiutato nelle
scelte, che mi ha salvato dalle disgrazie, che mi ha sempre amato, non senza
attriti, ma con incondizionato amore di mamma. Amore eterno che io ricambio. In
eterno.
![]() |
1966 - Lori, Ciccio ed io |
In questa foto siamo
Mamma Loretta con in braccio mio fratello maggiore Francesco, ed io. Ci sono ma
non mi si vede… capito dove sono? Un aiuto: l'anno della foto è il 1966.
CIAO ROBY, HA FATTO UN AUTORITRATTO MOLTO INTERESSANTE, CHE HO COPIATO SU UN DOCUMENTO WORD PER LEGGERMELO TUTTO CON CALMA.
RispondiEliminaMA GIA' SO CHE MI PIACE PUBBLICARLO SUL MIO BLOG, SE MI AUTORIZZI E, POI, MAGARI ANCHE SU UNA TESTATA GIORNALISTICA SETTIMANALE DEL DR. ROBERTO ORMANNI (SAI CHI E', VERO?). CHE NE DICI?
P.S.: STO ESAMINANDO IL TUO BLOG DA CIMA A FONDO, MI CHIEDO PERCHE' NON L'HO FATTO PRIMA.
molto bella la tua presentazione e in alcuni punti concordo con le tue osseravazioni....complimenti.un saluto e grazie per la visita al mio blog
RispondiEliminaBello, sincero, a tratti commovente
RispondiEliminaBuona giornata Roby - e non lasciarti mortificare dal lavoro, quello che sei e vali sta altrove
Grazie Marginalia. Il tuo commento mi ha fatto molto piacere; mi da una spinta in più per affrontare le giornate future, il ché non è poco, te lo posso assicurare. Ricambio con sincerità l'augurio e virtualmente ti abbraccio.
RispondiEliminaCiao Roby, mi è piaciuto leggere di te. è bello che ci siano persone che, come te, si mettono a nudo e raccontano le loro esperienze facendo partecipe chiunque ne abbia la voglia. E poi, scrivi molto bene!
RispondiEliminaLorenzo Zaganelli
Ciao Roby complimenti per il tuo carattere e la volontà di resistere ad ogni avversità
RispondiEliminaCiao Roby, avrei bisogno di comunicare con te...non trovo nessuna mail nel blog, potresti contattarmi per favore?
RispondiEliminavocidallastrada@live.it